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Dal conflitto al contenzioso

Su questi concetti, si è spesa una corposa letteratura da parte degli addetti ai lavori per coglierne le differenze e comprendere qual è la cosa più giusta da fare davanti ad una controversia, non solo dal punto di vista strettamente giuridico.

Secondo autorevole dottrina, quando il conflitto si radica in sede giudiziale il dolore assume i tratti di un antagonismo molto diverso, a volte bellicoso, altre ludico-sportivo. Ogni avvocato ha conoscenza di questa mutazione, resa palese anche dal lessico adottato dai litiganti, che si propongono di ‘dare battaglia’, di ‘attaccare aprendo altri fronti’, di ‘ricorrere all’artiglieria pesante. Un diverso tipo di approccio mutua, invece, le metafore dal linguaggio sportivo.

Il peso delle emozioni delle parti si camuffa, quindi in sede giudiziale, estraniando giudici ed avvocati dai sentimenti sottostanti il conflitto: il dolore, la rabbia, che non possono essere sopiti e non trovano vie di elaborazione, si celano dietro altre sembianze. In parte ciò accade perché i litiganti provano pudore nel mostrare ai rispettivi legali i loro veri sentimenti, che mimetizzano pertanto sotto l’apparenza di propositi reputati meno compromettenti e più confacenti alla situazione, in parte è proprio l’opzione giudiziaria, con i suoi riti ed i suoi protagonisti, a non lasciare spazio alle emozioni.

I legali (quelli eticamente irreprensibili) inutilmente tentano di spiegare ai clienti che gli obiettivi del processo sono esclusivamente economici, e che non è quella giudiziale la sede per cercare rivalse, rappresaglie o soddisfazioni morali e per il giudice, del resto, sarebbe un’inutile perdita di tempo ascoltare chi nulla aggiunge a quanto narrato dalle carte del giudizio, introducendo quel ‘fattore umano’ che deve, invece, rimanervi quanto più possibile estraneo. Eppure, nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, non si manca di evidenziare che ormai spetta sempre più ai giudici «risolvere le più gravi e difficili questioni di diritto civile poste dal cambiamento dei costumi, dalla scienza e dalla tecnica». Questo non è l’effetto di distrazioni o ritardi del legislatore, ma del fatto che la vita propone ormai una molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre variabili, che nessuna legge può cogliere e disciplinare nella loro singolarità, in un inseguimento continuo ed irraggiungibile.

Il mediatore che interviene nel corso di un giudizio già avviato opera in una situazione che non ha i medesimi aspetti della fase che ha preceduto l’instaurarsi del giudizio stesso, ed anche le motivazioni delle parti sono mutate: prioritario è non più ottenere ‘soltanto’ il soddisfacimento dei propri diritti, bensì la distruzione dell’avversario ed allora si pongono degli interrogativi di quanto domande di giustizia esistano e quindi di adeguate risposte alle prime e su quali ed innovative competenze debba agire l’operatore del diritto.

A cura del responsabile scientifico di Concilia Lex S.p.A. avvocato Pietro Elia

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